29 novembre 2006

CI ASPETTAVAMO di più dal lavoro nei processi……

«Ci aspettavamo di più dal lavoro nei processi, dalla possibilità che il codice di procedura penale offre quando parla di indagini difensive. Invece i casi di investigatori privati chiamati a collaborare sono pochissimi. Ma in generale, specie negli ultimi tempi, ci sentiamo guardati con sospetto. E non sempre siamo messi in condizione di lavorare». Parla Paolo Gatti, segretario nazionale della Federpol, l’associazione che riunisce i detective nostrani, i Marlowe d’Italia. Quasi cinquecento i soci, a rappresentanza di una categoria che dopo gli ultimi scandali - ad esempio quello sulle intercettazioni abusive - chiede di non fare di ogni erba un fascio. Dottor Gatti, perché nei processi si lavora poco? Le potenzialità offerte dal nuovo codice di procedura penale sulle indagini difensive non vengono utilizzate dagli avvocati, gli esempi di legali che si servono di detective privati sono pochi. La categoria dal canto suo ha cercato di aggiornare la propria professionalità, ma non è servito. In generale gli investigatori, dopo il caso Telecom, sembrano finiti nell’occhio del ciclone. Mele marce ci sono dappertutto, quindi non si può criminalizzare un’intera categoria, che invece spessissimo lavora a stretto contatto con le procure, che anzi si servono di noi e addirittura ci chiedono in affitto le attrezzature. Il sospetto nasce dal pericolo di violazioni della privacy, come nell’affaire Telecom? La legge sulla privacy come tale va rispettata. Ci sono però delle norme eccessivamente restrittive che si potrebbero rivedere. Che senso ha che io, che sono in possesso di una licenza rilasciata dal prefetto, non possa accedere a determinate informazioni che mi vengono richieste per svolgere un lavoro? Faccio un esempio: gli accertamenti preventivi per la stipula dei contratti, per sapere se un contraente è affidabile oppure è persona che ha precedenti per truffa. Quanti raggiri si potrebbero evitare se gli investigatori fossero messi in condizione di lavorare? Allora ci si permetta di accedere a queste informazioni, magari con la tutela di registrare l’accesso ai dati per punire eventuali violazioni. Parlava della licenza. E la battaglia sull’albo professionale? Ce l’hanno le categorie più disparate, dai consulenti del lavoro ai commercialisti, dagli avvocati ai notai. Perché non permettere anche agli investigatori di darsi delle regole? Ne tornerebbe un vantaggio per tutta la collettività. Dell’ipotesi di istituire un albo si è parlato molto anni fa, poi il discorso è tramontato. Ma oggi, soprattutto dopo gli ultimi fatti, potrebbe tornare d’attualità. Da un lato si arginerebbe la proliferazione delle licenze, che vengono rilasciate spesso senza controlli adeguati sulle qualità professionali e sulla correttezza del richiedente; dall’altro si metterebbe un freno all’invasione di istituti di investigazione e sicurezza abusivi che spesso operano spesso seguire alcuna regola.
ALFREDO VACCARELLA

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